Wesperbild
Un “compianto” atipico perché i
santi che fiancheggiano la Vergine Madre non sono certo le figure che si
accingono a preparare la salma per il sepolcro. Non è un Vesperbild perché la
solitudine mistica che caratterizza questa rappresentazione è qui contaminata
da santi “votivi” che la circondano. Non è una meditazione sul Cristo morto
perché è in atto la rigenerazione del corpo per l’intervento del Padre che
sembra sconvolgere i cieli con una nuova creazione. Resta, palpabile, l’umanissimo
dramma di una Madre, specchio del dolore di ogni madre terrena colpita dal
dolore più grande: la morte di un figlio. Aspertini sembra indugiare
sull’umanità di questa donna, sconvolta dal dolore e come il Figlio, in un
certo momento della sua agonia, abbandonata dal Padre di cui si è fidata e che
non ha mai conosciuto.
Maria Mater che tiene tra le sue
gambe, sostenendolo con le braccia, il cadavere del Figlio. In lei non c’è
sentore di resurrezione. Il suo volto è una maschera di dolore vivo. Le guance
percosse dal pianto, le labbra palpitanti per i
singhiozzi. Forse non sarà disperazione, ma è dolore vivo che l’Aspertini fissa
sulla tela con un coinvolgimento dell’intera natura che diventa specchio del
dolore della Madre. I cieli appaiono striati da infinite variazioni di toni
giocati sul verde marcio, che resistono ad ogni luce che pure verrà. Ma non è
della Madre sapere. Il suo è dolore assoluto e diventa tutt’uno con quel cielo
che non è più “atmosferico”, ma specchio di quell’anima gemente, scossa in ogni
sua fibra, contrapposta con la sua involontaria vitalità, alla rigidità del
cadavere del Figlio.
Un figlio a cui la madre parla ancora. Ne sostiene il capo con la mano destra. Gli si rivolge come se fosse vivo, come se potesse ancora sentire la voce singhiozzante e vedere il dito indice della mano sinistra, disteso, che mima il pensiero espresso per il Figlio, inerte nel rigor mortis.
I santi che la fiancheggiano non possono offrire alcuna consolazione davanti al puro dolore dipinto da Aspertini. La desolazione è personale; in questo momento non è condivisibile. È solo tormento.
Un figlio a cui la madre parla ancora. Ne sostiene il capo con la mano destra. Gli si rivolge come se fosse vivo, come se potesse ancora sentire la voce singhiozzante e vedere il dito indice della mano sinistra, disteso, che mima il pensiero espresso per il Figlio, inerte nel rigor mortis.
I santi che la fiancheggiano non possono offrire alcuna consolazione davanti al puro dolore dipinto da Aspertini. La desolazione è personale; in questo momento non è condivisibile. È solo tormento.
Una lama di luce cerca di forare il
cielo sopra la Vergine, madre inconsapevole delle forze che quella morte ha
scatenato e che sta per essere invasa assieme al Figlio da una nuova vita.
Distante fisicamente dal dramma
di una morte umana, ma coinvolto in ogni sua incorporea fibra, l’universo
stesso è sconvolto da una forza che ha il suo centro vitale in Dio Padre. Forza
che sta per ridare la vita. Lo Spirito che viene dal Padre sotto forma di Luce,
sconvolgendo l’universo, fora infine il cielo terrestre, avvolge il dolore
della Madre, sta per penetrare il cadavere del Figlio. Dio Padre con nuovo
impeto creativo, viene incontro al Figlio e al dolore cosmico della Madre. Non
è ancora la resurrezione, ma il momento in cui l’alito di Dio sta per
raggiungere il Figlio e la Madre. Un istante dopo è la Resurrezione. Non quella
del Cristo che “vola” sopra il sepolcro, ma il momento in cui l’energia vitale
riconquista quel corpo, lo scuote come altre volte ha fatto il Figlio nel corso
della sua presenza tra gli uomini. A
parlare, questa volta è il Padre. Lo fa con la forza della Luce. Le parole sono
quelle che già udimmo dal figlio: “Alzati e cammina”.