Restauri documentati
Attualmente l’Icona è custodita entro una teca in rame argentato che è stata realizzata nel 1625 per disposizione delle monache domenicane che al tempo abitavano l’eremo. Sul verso di questa custodia sono incollate alcune carte che ricordano altrettanti restauri. Sul recto viceversa è riportata una lunga iscrizione che ricorda l’anno in cui fu eseguita la custodia e i nomi di tutte le monache che abitavano il Santuario. Il recto non è comunemente visibile perché coperto dall’icona che è custodita dalla teca il cui coperchio viene sigillato con il sigillo del Cardinale e dunque non è facilmente ispezionabile.
La data riportata nella parete interna della teca, quella coperta dall’Icona, riveste un particolare significato per la storia della manutenzione: documenta che almeno dal 1625 l’Icona ha mantenuto le dimensioni e la struttura che possiede ancora oggi.
È ragionevole supporre che l’inserimento dell’Icona nella teca abbia comportato una manutenzione straordinaria del dipinto. non possiamo però identificare con una data puntuale i diversi interventi che si sono succeduti nel tempo. Certo è che la custodia è stata preparata per ospitare una tavola dalle misure ben note. È certo che, a questa data, l’Icona presentava già la struttura che mantiene ancora oggi, con le due traverse in alto e in basso.
Discuteremo delle traverse esaminando la “cornice” dell’Icona. La data del 1625 potrebbe rivelarsi importante per immaginare un intervento di ricomposizione delle assi che delimitano in alto e in basso l’Icona.
Sul lato esterno della teca che racchiude l'immagine, due diversi cartigli ricordano tre interventi di restauro e manutenzione negli anni 1898, 1955, 1976.
Qual’era l’aspetto dell’immagine negli anni in cui fu realizzata la custodia? Lo stato di conservazione dell’icona agli inizi del XVII secolo può essere osservato attraverso una copia, conservata nei depositi della Pinacoteca Nazionale di Bologna e che una antica tradizione documentaria vuole eseguita da Ludovico Carracci.
Al di là dell’autore che ha eseguito la copia, il dipinto mostra di conoscere l’Icona e ne riprende il naso, le labbra e anche la lunga arcata sopraccigliare. Difetta il taglio degli occhi, mentre presta particolare attenzione alle aureole dipinte che fingono un pronunciato rilievo, come sull’originale. Non c’è il fondo ed del tutto “inventata” la posizione della mano che indica. Sono dettagli che non meravigliano soprattutto se immaginiamo che il pittore non avrà potuto vedere l’immagine nella sua interezza. È probabile infatti che già allora fosse coperta da una lastra d’argento che ne lasciava vedere, come oggi, i soli volti. in ogni caso l’immagine era rivestita di ex voto appuntati un po’ dappertutto come documentano le numerose tracce di chiodini circondati da cera che abbiamo ritrovato sull’intera icona.
Acquista un particolare interesse il colore molto scuro degli incarnati e potrebbe essere un documento quasi “forografico” dello stato di conservazione dell’Icona al XVII secolo, non dissimile, del resto, dall’immagine che abbiamo esaminato prima dell’intervento di restauro.
La corona infine potrebbe giustificare la “copia”, ma non il nome rilevante di Ludovico Carracci. Un nome forse un po’ troppo importante soprattutto se valutiamo la realizzazione delle corone e dell’aureola. Tratti distintivi dell’icona, ma tutto sommato modesti nella realizzazione.
Viceversa la corona potrebbe giustificare la realizzazione della copia che potrebbe essere stata eseguita per esaltare la prima incoronazione dell’Icona avvenuta nel 1603 ad opera del Cardinale Paleotti. Una corona “tutta d’oro massiccio adorna di molte gioie e perle con Crocetta di Cristallo entro la quale eravi il legno della Santisisma Croce … “. Manca la crocetta in cristallo, ma le perle, le gioie e l’oro massiccio sono particolarmente evidenti.
La “copia” potrebbe documentare questo significativo momento del culto e rende testimonianza anche dello stato di conservazione del dipinto, del tutto annerito a causa di fumi che si sono addensati sul legno.
Sul verso della custodia in rame argentato realizzata nel 1625, un cartiglio fa menzione del restauro ordinato dal Cardinale Domenico Svampa nel 1898 (fig. 1). Nella relazione data alle stampe in questa occasione si afferma che il restauro interessò esclusivamente la sistemazione delle tre tavole che compongono il supporto. La superficie lignea vista dal retro (fig. 2) evidenzia due fenditure verticali. La prima in corrispondenza del fianco destro della Vergine attraversa per intero la tavola. La seconda, sul lato opposto, interessa soprattutto la parte superiore della tavola. Dal retro le fenditure sono perfettamente visibili, appaiono ricomposte con una colla e sono tenute assieme da “farfalle” in legno di castagno. Mostriamo una vista “virtuale” delle tavole al momento dell’intervento, con le fenditure a vista (fig. 3) e riproponiamo – sempre in ipotesi - il momento del posizionamento di una “farfalla” dopo aver effettuato lo scasso sul legno originario (fig. 4). Sull’ultima farfalla in basso a destra, un’iscrizione a matita, ricorda il nome di un sacerdote – evidentemente il responsabile per conto del Santuario – assieme all’anno e al mese in cui venne effettuato l’intervento. (fig. 5)
Sul verso della custodia in rame argentato realizzata nel 1625, un cartiglio fa menzione del restauro ordinato dal Cardinale Domenico Svampa nel 1898 (fig. 1). Nella relazione data alle stampe in questa occasione si afferma che il restauro interessò esclusivamente la sistemazione delle tre tavole che compongono il supporto. La superficie lignea vista dal retro (fig. 2) evidenzia due fenditure verticali. La prima in corrispondenza del fianco destro della Vergine attraversa per intero la tavola. La seconda, sul lato opposto, interessa soprattutto la parte superiore della tavola. Dal retro le fenditure sono perfettamente visibili, appaiono ricomposte con una colla e sono tenute assieme da “farfalle” in legno di castagno. Mostriamo una vista “virtuale” delle tavole al momento dell’intervento, con le fenditure a vista (fig. 3) e riproponiamo – sempre in ipotesi - il momento del posizionamento di una “farfalla” dopo aver effettuato lo scasso sul legno originario (fig. 4). Sull’ultima farfalla in basso a destra, un’iscrizione a matita, ricorda il nome di un sacerdote – evidentemente il responsabile per conto del Santuario – assieme all’anno e al mese in cui venne effettuato l’intervento. (fig. 5)
La relazione a stampa che documenta il restauro del 1898 afferma che non c’è stato intervento sulle cromie. L'affermazione è confermata anche dalla lastra fotografica. L’asserzione fatta non esclude comunque un possibile intervento minimale anche sulle cromie. E’ significativo il termine utilizzato nel cartiglio del 1898. Si dice espressamente che “la Venerata Immagine della B. vergine di S. Luca fu raffermata”. Un vocabolo che potrebbe anche far pensare ad un intervento di “fermatura” del colore oltre al consolidamento delle tavole senza che questo abbia a intaccare la veridicità di quanto affermato nel saggio a proposito del non intervento sulle cromie.
Una lettera del 26 febbraio del 1955 indirizzata da Cesare Gnudi alla Curia di Bologna, descrive la tavola coperta da “damasco rosso che avvolge la parte inferiore del dipinto” e chiede di poter rimuovere i sigilli, evidentemente quelli del Cardinale Svampa documentati dalla lastra fotografica, per poter esaminare il dipinto e procedere al fissaggio del colore che in molti punti appare sollevato e instabile. La situazione conservativa era dunque quella del 1898, con una vasta lacuna nella parte inferiore che è documentata da una fotografia pubblicata nel volume “La madonna di san Luca in Bologna” e al momento non rintracciata (fig. 1). Evidentemente la foto sarà stata scattata durante l’intervento del 1955 documentato dal cartiglio posto sulla custodia dell’Icona e mostra la parte inferiore della tavola del tutto abrasa.