La peste del 1630 a Bologna - baldacchino della peste

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La peste del 1630 a Bologna

Il "Pallione" di Guido Reni
Già in quel terribile anno, il 27 dicembre del 1630, scemata l’epidemia, si è portato in san Domenico il palione che Guido ha appena realizzato[1]. Gravati ancora dai lutti e dalla povertà fisica e spirituale, avevano comunque detto grazie a Maria. Appariva la Vergine, nel “palione” di Guido sopra un mistico arcobaleno, avvolta di un non umano splendore che coinvolgeva progressivamente i santi intercessori. Lei, di Speranza fontana verace, attraversando i cieli, guardava la sua Bologna avvolta nella notte, ignara della luce che sta per toccarla. I suoi figli, nella città “oscura” levano invano le braccia verso un cielo impenetrabile e i loro sguardi sono rivolti ai carri che trasportano i morti. Il buio sembra non lasciare spazio alla speranza. I carri si muovono davanti alla città dolente, verso l’eterno dolore.  Incapaci anche di accompagnarne i cadaveri, “i cittadini si schivavano a vicenda, il vicino abbandonava il vicino … Videsi talora il fratello abbandonare il fratello, la moglie il marito, e talor persino padri e madri rifuggire alla vista de’ figliuoli fatti preda del morbo … non più congiunti, non più amici accompagnavano la spoglia alla quiete del sepolcro: un sacerdote, e due becchini soltanto recavano i cadaveri al campo santo o a la chiesa la più vicina[2]. La descrizione che troviamo negli Annali del Muzzi, è così simile all’altra descritta da Manzoni nei suoi Promessi Sposi che si potrebbe quasi pensare ad un plagio del Muzzi se il dipinto di Reni – che non conosceva Manzoni - non descrivesse con il pennello quanto secoli dopo il Muzzi racconta nella sua toccante cronaca bolognese, descrivendo gli effetti del morbo sui sopravvissuti[3]. Effetti fisici e soprattutto psicologici perché è da intendere che l’aver abbandonato, in un momento di particolare impotenza e sconforto, familiari e amici, forse anche i figli morenti, non è stato senza conseguenze. Passata la pestilenza, ora per i bolognesi sopravvissuti è anche il tempo del rimorso e del pentimento. C’è la necessità di ringraziare e riconciliarsi con il Salvatore attraverso la Madre di Dio e una prima volta, ancora quasi sotto la peste, lo si fa in quel 27 dicembre del 1630.
 
Reni, il pittore del “Palione”, si ritrova nel mezzo della peste così come il giovane Malvasia che sarà il suo biografo e biografo di tanti altri pittori bolognesi. Malvasia è un ragazzo di 14 anni, Reni il maturo e affermato maestro di 55. Stranamente – o forse consapevolmente – Malvasia, nella sua Felsina Pittrice, quasi non fa cenno agli effetti della peste sulla città. Quanto al “Palione”, ne descrive le qualità di stile ed evita ogni approfondimento sulla peste che ha generato l’opera.
Reni che non è uno scrittore parla della peste con il suo Palione. Di fatto è la prima fonte a raccontare in diretta quei terribili giorni. Ne parla soprattutto attraverso i carri che si muovo davanti alle mura di Bologna con il loro carico di morti, con l’oscurità che avvolge la città. Sono una fedele immagine degli altri carri in cui si imbatte Renzo cercando la sua Lucia. Se potessimo separare questa “pagina” del Palione da tutto il resto, dai Santi che impetrano, dalla luce della Vergine, capiremmo il dramma vissuto da Reni che “scrive” con ancora negli occhi quelle immagini che raffigura: i carri, i presunti “monatti”, il popolo disperato e tra il popolo lui stesso.
 

 
   
[1] cfr. Alfonso D’Amato o.p., I Domenicani a Bologna vol.II. Bologna ed. studio domenicano 1988, pp. 662 – 664.  
[2] Salvatore Muzzi, Annali della città di Bologna dalla sua origine al 1796 compilati da Salvatore Muzzi, tomo VII, pe’ tipi di san tommaso d’Aquino, Bologna 1844. In questo caso il Muzzi riprende la descrizione di Pietro Moratti, op. cit. pp. 76 – 78.
[3] La prima edizione dei promessi Sposi, dopo il Fermi e Lucia del 1827 è del 1840 – 42 proprio a ridosso della cronaca del Muzzi data alle stampe nel 1844, così è scritto sul frontespizio anche se l’imprimatur, in fondo al volume è datato 1846
 
 

Il "Pallione", insieme.
I Ministri vestiti di bianco - i cocchiettieri
I ministri “vestiti di bianco, che portavano gli infermi”[1] erano preposti al trasporto al Lazzaretto dei sospetti . Questi inservienti, per maggior tutela della propria salute tenevano, sotto il naso, una spugna imbevuta di aceto e altre sostanze[2] proprio come vediamo nelle figure vestite di bianco sinteticamente abbozzate da Reni. L’ingrandimento mostra chiaramente la maschera che copre i loro volti. Altri accorgimenti erano utilizzati per preservare la salute degli inservienti. Tutte regole basate sull’igiene come se i coordinatori sanitari, e per primo il Padre Orimbelli, posto a capo dell’intera gestione dei Lazzaretti, avessero intuito che sterilizzare le vesti e lavarsi frequentemente tornasse utile a preservare la propria salute e a non far diffondere il contagio[3].
 
La figura di Padre Orimbelli è di particolare rilevanza nella gestione dell’epidemia e forse la presenza sul Palione di Reni, anche dei Santi Ignazio e Francesco Saverio, è legata a questa straordinaria figura di coordinatore e “figlio” di sant’Ignazio di Loyola.


[1] Pietro Moratti, op, cit. p. 39
[2] Pietro Moratti, op. cit. p. 59: portare sotto il naso una sponga tuffata nell’aceto, overo una palla di giunipero vuota di dentro, con alcuni fori intorno, nella quale vi fosse una sponghetta, con aceto, triaca, sandoli rossi, zaffarano, muschio, aloé e altri ingredienti simili, fatti bollire dentro la sudetta aceto. I sudetti Ministri, e medici nel toccar il polso portavano i guanti, à gli occhi due cristalli attaccati alla veste di tela detta di sopra.
[3] Pietro Moratti, op. cit. p. 59: fu parimenti degno di considerazione, come molti ministri destinati al servitio de gl’infermi ò Lazaretti, per meglio conservarsi illesi dal contagio, mentre esercitavano i loro offici intorno agli infermi, vestivansi con alcune veste di tela cerata, che da capo a piedi gli copriva, e usciti ch’erano dal luogo sospetto, di quella si spogliavano, ponendola all’aria, e se à caso fossero stati necessitati di nuovo ritornarvi, procuravano haverne un’altra, fin che quella almeno per spazio di 24 hore si fosse purgata, del che molti ne riceverono beneficio.
 
 
il trasporto degli infetti al lazaretto
il trasporto dei morti alle fosse comuni
I Ministri vestiti di nero - i monatti
Pietro MORATTI – Racconto degli ordini e provisioni fatte ne’ Lazaretti in Bologna e suo Contado in tempo del contagio dell’Anno 1630. Edito nel 1631

 
erano poi vestiti alcuni Huomini con saccone negro, e un segno di croce rossa nel petto e nella schiena, i quali havevano un soprastante che loro comandava, dove dovessero andare e acciochè i morti non restassero molto tempo nelle case ogni quartiero haveva il suo soprastante, col quale si trattava non essendo sospetto e subito conduceva i suoi Huomini alle Case, dove erano i morti, trattando con quelli sempre di lontano, quali entrando in casa, pigliavano il morto e involto in un lenzuolo, lo ponevano sopra un cataletto basso, fatto à quell’effetto, e poi con una tela negra lo coprivano, e senza altre cerimonie lo portavano alle fosse e pozzi fatti dietro le mura della città.
... però con bello (ma spaventoso) artificio, sopra certi carri furono accomodate alcune macchine a guisa di d’una barchetta, quali erano condotti per la città, e pigliavano i morti ne’ Quartieri, conforme erano distribuiti; e perché dalla parte di sopra erano chiusi, non si vedevano i morti, né tampoco apportavano fetore usandosi gran diligenza in levar subito i morti, e com’erano carichi  di circa 25 corpi, gli conducevano fuori della città ne’ renazzi del fiume Reno e Savena, dov’erano fatti i nuovi Sacrati; con alcune fosse grandissime, circondate di cancelli, e steccati e ivi condotti i sudetti carri e aperti alcuni catenazzi, dalla parte di dietro, cadevano i corpi nelle nelle suddette fosse, e poi con diligenza esquisita, da certi homini, ch’ivi in alcune case di legno stavano, si coprivano, facendo sopra loro un suolo di calcina, e giara, accioche le carni più tosto si consumassero, né potessero apportar fetore. (pp. 59 - 60)
il disperato dolore dei sopravvissuti
I Cittadini si schivavano a vicenda
Incapaci anche di accompagnarne i cadaveri, “i cittadini si schivavano a vicenda, il vicino abbandonava il vicino … Videsi talora il fratello abbandonare il fratello, la moglie il marito, e talor persino padri e madri rifuggire alla vista de’ figliuoli fatti preda del morbo … non più congiunti, non più amici accompagnavano la spoglia alla quiete del sepolcro: un sacerdote, e due becchini soltanto recavano i cadaveri al campo santo o a la chiesa la più vicina[1]. La descrizione che troviamo negli Annali del Muzzi, è così simile all’altra descritta da Manzoni nei suoi Promessi Sposi che si potrebbe quasi pensare ad un plagio del Muzzi se il dipinto di Reni – che non conosceva Manzoni - non descrivesse con il pennello quanto secoli dopo il Muzzi racconta nella sua toccante cronaca bolognese, descrivendo gli effetti del morbo sui sopravvissuti[2]. Effetti fisici e soprattutto psicologici perché è da intendere che l’aver abbandonato, in un momento di particolare impotenza e sconforto, familiari e amici, forse anche i figli morenti, non è stato senza conseguenze. Passata la pestilenza, ora per i bolognesi sopravvissuti è anche il tempo del rimorso e del pentimento.


[1] Salvatore Muzzi, Annali della città di Bologna dalla sua origine al 1796 compilati da Salvatore Muzzi, tomo VII, pe’ tipi di san tommaso d’Aquino, Bologna 1844. In questo caso il Muzzi riprende la descrizione di Pietro Moratti, op.cit.pp. 76 – 78.
[2] La prima edizione dei promessi Sposi, dopo il Fermi e Lucia del 1827 è del 1840 – 42 proprio a ridosso della cronaca del Muzzi data alle stampe nel 1844, così è scritto sul frontespizio anche se l’imprimatur, in fondo al volume è datato 1846
sant'Ignazio di loyola
I Santi protettori di Bologna
San Francesco Saverio
La Vergine incoronata dagli angeli con un serto di rose
I nuovi santi Patroni
Il 2 agosto del 1630 il gonfaloniere Alessio Orsi e i Patres Conscripti, sotto l’incalzare del morbo, aggiunsero ai protettori della città i Santi Ignazio e Francesco Saverio[1]. Delibera comunicata all’ambasciatore Sampieri a Roma che si congratula per aver scelto “a Patrona la Madonna del Rosario e a Protettori il Loiola e il Saverio[2] . Lo stesso Padre Luigi da Gatteo è portato a ipotizzare che nella scelta dei nuovi Santi Protettori abbia influito anche Padre Angelo Orimbelli[3]. Un’opinione che è invece certezza per Patrignani che immagina l’Orimbelli nel quotidiano patire per le tante prove cui erano sottoposti gli ammalati nel Lazzaretto. Nella preghiera, nella richiesta di aiuto a Dio “si sentì suggerire nel cuore una gran fiducia di veder placata la divina giustizia, se la città tutta con pubblica divozione implorato avesse l’aiuto di Sant’Ignazio, e di S. Francesco Saverio[4] Si tratta di una “fonte” di parte, ma è più che legittimo immaginare che Padre Orimbelli, nei Lazzaretti, se non altro per devozione personale, avesse favorito il culto del proprio Padre Fondatore. Il prestigio guadagnato sul campo, il favore di cui godeva presso il Cardinale Legato, rende più che plausibile che nell’impetrare l’aiuto della Madonna del Rosario fosse lui a proporre la mediazione dei “suoi” santi intercessori. Santi che, per altro, solo in occasione del Palione del Voto appaiono assieme ai Patroni della città. Come se il loro patrocinio fosse limitato al voto e non ad una presenza permanente tra i “Patroni” della città. E’ evidente che se il voto è fatto alla Vergine del Rosario e ai Santi Ignazio e Francesco Saverio, nel momento in cui, diminuito il pericolo di contagio, si scioglie il voto, il 27 dicembre del 1630, sull’emblema del Voto, il Palione di Guido, non potevano certo mancare i due Santi espressamente invocati. Un’osservazione da rimarcare perché nell’edizione critica della Felsina Pittrice curata dallo Zanotti si sostiene che i Santi Ignazio e Francesco Saverio furono aggiunti due anni dopo[5]. Una nota che stride con quanto detto e con la cronaca di Pietro Moratti il quale, descrivendo l’ingresso della processione in san Domenico ricorda, in chiesa “un nobilissimo Stendardo, fatto fare dall’Illustris. Senato, ove dipinto era la vergine del Sacratissimo Rosario, co’ i sei Protettori della città, opera del Celeberrimo Sig Guido Reni, la cui virtù, e valore da se stesso illuminandosi, non haveva bisogno di laude altrui, ma più tacendo e ammirando si lodava, che non sarebbesi fatto col ragionare, e scriverne”[6]. Il riferimento a sei santi protettori è la conferma che fin dalla prima esposizione dell’opera i Santi Ignazio e Francesco Saverio erano stati associati agli altri quattro storici protettori: Petronio, Procolo, Francesco e Domenico. È anche vero che sul Palione è raffigurato un altro santo, Floriano, che pur essendo stato annoverato tra i santi protettori della città, è progressivamente ignorato come, del resto, mostrano i quattro Santi scolpiti nel 1525 da Alfonso Lombardi e poste sui quattro pilastri del voltone del Podestà[7].
 

 
[1] Cfr. Luigi da Gatteo, op. cit. p. 103. Trascrive il documento custodito presso l’archivio di Stato di Bologna (Partiti del Reggimento, vol. 32 fol. 14 verso)
[2] Luigi da Gatteo, op. cit. p. 104 con rimando al carteggio dei “Diarii del Senato” presso l’Archivio di Stato di Bologna
[3] Luigi da Gatteo, op. cit. p. 108 nota 16.
[4] Menologio di Pie memorie d’alcuni religiosi della Compagnia di Gesù raccolte dal Padre Giuseppe Antonio Patrignani della medesima Compagnia. Tomo IV dall’anno 1538 all’anno 1728. Venezia MDCCXXX p. 53.
[5] C. C. MALVASIA, Felsina Pittrice. Vite de’ pittori bolognesi con aggiunte, correzioni e note inedite dell’Autore di Giampietro Zanotti e di altri scrittori, vol. II parte IV p. 37 nota 2. Bologna 1841. Ed. Anastatica Arnaldo Forni, 2004
[6] Pietro Moratti, Raccontode gli ordini e provisioni, op. cit. p. 111. Ho riportato per esteso il giudizio sulla pittura del Maestro anche perché espresso nel pieno dell’attività del Reni e da parte di un monaco celestino, che non sembra abbia coltivato particolari interessi storico artistici.  Analoghe osservazioni erano state portate da LUIGI DA GATTEO, op. cit. p. 194 il quale omette d’osservare che la nota non è del Malvasia, ma del suo commentatore, Giampietro Pietro Zanotti. che il dipinto avesse ancora bisogno di altre finiture, ma non certo di aggiunte così significative e rilevanti per il “Palione della Peste” lo fa capire un altro contemporaneo, Domenico Verità, in una corrispondenza con il Conte Filippo di Rodrone
[7] G. CAMPANINI, D. SINIGALLIESI (a cura di), Alfonso Lombardi. Lo scultore a Bologna, fotografie di Paolo Righi, Bologna 2007
 
 
 
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